The Twisted Logic of Not Talking to North Korea

If we accept the logic that talks between the two Koreas may ultimately fail, but are still useful, why don’t we apply that same logic to talks between the United States and North Korea? That’s the…

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Le corride in Italia

di Mario Bocchio

Ne La tradition tauromachique en Italie, l’autore grazie ad un grande lavoro di documentazione e ricerca passa in rassegna la relazione che nei secoli ha legato il paese alla cultura taurina.

L’ultima parte del testo, due capitoli ed un epilogo, è consacrata alla corrida spagnola ed alle sue apparizioni in Italia.

Nel primo capitolo di questa sezione, intitolato La corrida alla moda spagnola, Ponticelli racconta delle esperienze di importare la corrida in Italia nel periodo immediatamente successivo alla unificazione del paese, nella seconda metà dell’Ottocento.

Anche grazie alle maglie larghe di una legislazione che non normava con precisione i giochi con gli animali, verso la fine del diciannovesimo secolo si assiste all’apparizione in Italia di uno spettacolo esotico di cui si era sentito parlare ma che in molto pochi conoscevano: la corrida.

Nella primavera del 1890 arrivano a Roma un paio di novilleros spagnoli, che avrebbero dovuto essere i protagonisti di una serie di esibizioni nella capitale.

Perico Campos e José Hernandez non brillano, evidentemente, al loro debutto se il giornale spagnolo El Toreo del 19 maggio commentca che “da quanto ci dicono, le spettacolo non ha fatto segnare un buon risultato nella capitale, tanto che si rinuncerà a proseguire la serie di corride previste nella città eterna”.

Due anni dopo la fiesta sbarca in Sicilia.

Su L’Illustrazione Italiana, il 4 giugno del 1892 si legge così: “La plaza era ampia e in seimila hanno assistito alla tauromachia. Uno splendido colpo d’occhio, con un gran numero di donne dagli abiti chiari e con minuscoli cappelli di paglia. (…) Ma ecco che si apre la porta dell’arena e due alguaciles a cavallo, nei loro costumi neri, entrano al galoppo e si fermano sotto la loggia delle autorità per salutare. Li seguono le cuadrillas: primi i due matadores o espadas, Juan Borrel el Murullu e José Cazanave el Morenito, due autentici spagnoli. Vengono quindi i picadores a cavallo, con i larghi cappelli e i pantaloni di cuoio, poi i capeadors con la capa, un mantello rosso che portano sulle braccia. Quindi i banderilleros e infine le mule che traineranno fuori le spoglie. (…) Si apre il recinto in cui sono chiusi i tori… Il primo toro esce al galoppo, si ferma, gli occhi interrogativi. È un toro della Navarra, scuro, con delle corna potenti… rivestite di gomma! (…) Ma la parte più emozionante deve arrivare. L’organizzatore della corrida ha deciso di fare due corse non cruente e una invece con spargimento di sangue! Siamo proprio all’ultima corsa; suona il clarino; un bel toro andaluso, color caffelatte, esce impetuosamente dal toril. Le sue lunghe corna sono autentiche! L’animale porta, fissata sul dorso, una grossa coccarda di seta con dei lunghi nastri con i colori della Spagna. È il segnale che la bestia è destinata alla morte. (…) Alla fine anche il toro è ferito a morte, dopo aver scosso più di un torero. È un momento di intensa emozione. Alcuni spettatori svengono, altri se ne vanno disgustati. È opinione generale che questo spettacolo non sia fatto per la nostra civiltà. La corrida de toros di Palermo l’ha provato!”.

Dopo il passaggio isolano, è a Verona che nel 1893 delle grandi affiches annunciano ai cittadini che per la prima volta portanno assistere ad una Grande Corsa di Tori ispano-landese.

Il 3 settembre un corteo di toreri in abito di luci e di fanfare sfila per le vie del centro, promuovendo la corsa del pomeriggio

Le corride ispano-landesi erano delle corse miste, tipiche delle Lande alla fine del XIX secolo.

Ecarteurs landesi inizialmente, poi un lavoro con la capa e le banderillas.

Per una ragione essenzialmente economica, era ucciso un solo toro al giorno.

L’esibizione dei toreri francesi , tra cui Pierre Cazenabe alias Felix Robert, un cameriere di Mont de Marsan che rifiutava orgogliosamente di tagliarsi i baffi nonostante il costume dell’epoca impedisse ai toreri di portarne (ma per andare a toreare a Madrid, dove si presentò per l’anternativa, si presentò senza), piacque ai veronesi.

Le finte degli ecarteurs suscitarono una grande emozione, e l’esibizione inizialmente prevista per questa sola domenica, fu ripetuta cinque giorni più tardi.

Contrariamente alla prima, questa fu annunciata con “la morte del toro” a caratteri cubitali.

Che in realtà non avvenne: Felix Robert, che pure aveva fama di buon stoccatore, non volle rischiare l’ammenda di 100 lire prevista dal codice penale promulgato dal ministro Zanardelli nel 1890.

Nel testo si fa menzione ad una sanzione prevista per coloro che agiscono crudeltà o maltrattamenti nei confronti di animali: non si fà cenno a spettacoli, cruenti o no, ma a scanso di equivoci ed essendo la norma piuttosto suscettibile di interpretazione, il torero non uccise il suo sfidante.

Dopo gli esperimenti della fine del diciannovesimo secolo per importare la corrida in Italia, altri tentativi vengono fatti da organizzatori nazionali o spagnoli a cavallo delle due guerre mondiali, nel Ventennio del regime dittatoriale fascista.

Un circo fatto di tre novilleros, un saltatore e un rejoneador affronta una tournée che tra la primavera e l’estate del 1923 tocca Roma, Bologna, Verona, Milano e Trieste: nonostante le vive e rumorose proteste delle associazioni per la protezione degli animali, gli spettacoli suscitano la curiosità di un numero crescente di italiani, e il pubblico regolarmente riempie le plaza de toros improvvisate.

Il Corriere della Sera dà conto della corrida romana del 6 maggio, nella quale combatterono cinque giovani tori di Antonio Fuentes, e che fu del tutto incruenta.

“Una corrida innocente, coreografica, umanitaria, in cui l’uomo e l’animale, faccia a faccia, hanno fatto prova delle proprie abilità, astuzia e forza, senza farsi del male. (…) Non c’è niente da dire: lo stadio, trasformato in plaza de toros, è impressionante”.

Il cronista si dilunga inizialmente ad osservare la curiosa, per le nostre abitudini, divisione dei settori in sol y sombra: malriuscita, se è vero che lui stesso osserverà a fine spettacolo parecchie donne con principi di ustione pur essendo sedute nel settore in ombra.

Il manifesto annuncia che un toro sarà ucciso, e quel giorno gli animali usciranno da un sotteraneo in cui sono ospitati, per raggiungere l’improvvisato ruedo cinto da una doppia fila di palizzate a riprodurre un callejon se non proprio con tutti i crismi, almeno quasi.

Dopo la sfilata del paseo, “la corrida comincia immediatamente. Entra per primo il toro sivigliano. I banderilleros lo circondano brandendo le banderillas d’argento dorato in un gioco serrato che rivela tutta la loro destrezza. Il pubblico applaude. Le signore agitano i propri fazzoletti. Alcune, quando la cornata pare inevitabile, liberano degli urli di spavento. (…) Parejito e Corchaito (due dei novilleros ingaggiati) lavorano magnificamente. Quando il toro si ritira sano e salvo, si ha l’impressione di essere a teatro dopo il primo atto d’una commedia. Applausi sinceri e fragorosi, con la speranza che i successivi ce ne consentiranno ancora di più”.

I quattro tori successivi non sono però all’altezza del primo, e la corrida lentamente perde di interesse.

Ma arriva l’ultimo toro, e il cronista non nasconde la sua eccitazione nel registrare che sarà questo ad essere destinato alla morte.

Tocca a Parejito portare la stoccata decisiva ma questi esita, continua nelle serie di passi, e il pubblico benché a digiuno di qualsiasi cultura ed esperienza taurina, si indispettisce.

Ma nonostante gli incitamenti e gli inviti sempre più decisi e numerosi che arrivano dalle tribune, Parejto non uccide: “il povero Parejito ha l’ordine di non far del male al toro e getta la spada. La corrida sprofonda: fischi”.

Pure l’esibizione di Manuel Garcia, il torero a cavallo, lascia a bocca asciutta i romani accorsi allo spettacolo.

Termina così la corrida: “i toreri sicuramente irritati per la strana situazione in cui sono stati messi, filano velocemente sotto la doccia (…). I fischi sono per coloro che hanno voluto offrire a Roma una corrida che non è una corrida”.

Dopo questa prima le autorità, coscienti della delusione presso il pubblico e nonostante le pressioni e le vive reazioni degli animalisti, “di fronte alla volontà chiaramente manifestata dagli spettatori della prima corrida” autorizzano, nella seconda, la morte di un toro.

La corsa uscirà più movimentata della prima, sarà caratterizzata da momenti di intensa emozione e anche di panico tra il pubblico quando Corchaito verrà incornato (senza conseguenze gravi) e un toro salterà la prima barricata di assi.

Sarà Parejito ad uccidere, il quinto toro ed al secondo tentativo.

Qualche settimana dopo, è al velodromo di Bologna che il 27 maggio Corchaito si fà carico di posare le banderillas e uccidere, acclamato dalla folla, l’ultimo dei cinque tori di Antonio Fuentes.

Giorgio Ponticelli, l’autore del testo che qui prendiamo a riferimento, ricorda al proposito che l’abitudine di uccidere un solo toro era normale all’epoca pure nelle arene francesi, dove il terreno era fertile per lo sviluppo della corrida spagnola: il sud della Francia, dal golfo di Guascogna alle città affacciate del Mediterraneo, già viveva di tradizioni taurine autoctone e importante parte integrante della vita e della cultura dei suoi abitanti.

L’Italia in questa primavera del 1923 imparava invece a conoscerle, e a leggere di queste cronache sembra pure che ne fosse colpita, forse attratta.

Nell’Italia Repubblicana ogni sforzo si arena contro ostacoli insormontabili, di natura non solo legale.

La delegazione spagnola al Festival del Cinema di Venezia del ’56 fece un tentativo per organizzarne una sul Lido, senza successo.

Luis Miguel Dominguin, conosciuto in Italia per le sue frequenti apparizioni sulla nostra stampa rosa, dichiarò (era il 1972) che sarebbe venuto a toreare a Verona, sulla sabbia dell’Arena.

Una decina d’anni dopo, un impresario privato di Napoli si vide bloccare la propria iniziativa.

Nel 1985 a Venezia sembrava fosse la volta buona: un’associazione culturale lagunare ottenne l’approvazione del Comune per organizzare in occasione del Carnevale di quell’anno un ciclo di tre corride.

Ne parla il Corriere della Sera, nell’edizione del 5 gennaio: “Tre spettacolari corride, successive l’una all’altra, i primi giorni del carnevale (9, 10, 11 febbraio) inaugureranno in modo eccezionale e inedito la grande festa veneziana. La notizia è ufficiale. Una plaza de toros prefabbricata, in legno e acciaio, da duemila posti con una pista di 40 metri di diametro, sarà importata direttamente da Madrid (…); undici tori andalusi, di razza Miura, potenti e aggressivi, pelo nero e occhi rossastri (…); undici toreadores tra i più esperti e pure una donna torero, della stessa scuola, scenderanno nell’arena per un carosello vertiginoso durante il quale opporranno alla furia degli animali il mestiere, l’abilità e l’eleganza dei toreri”.

Le corride previste avevano un’unica regola: non una sola goccia di sangue si sarebbe dovuta versare, il toro non avrebbe dovuto essere né ferito né ucciso.

Uscito l’articolo sul Corriere, la reazione delle associazioni animaliste fu furiosa (arrivò fino al Papa sottoforma di lettera-petizione) e fece breccia nell’opinione pubblica non solo veneziana.

Risultato, il Comune fece marcia indietro e il 13 gennaio i quotidiani annunciavano che il progetto veniva definitivamente ritirato.

Niente Miura in Italia.

Ma nell’estate del 1994 fu un’autentica bomba quella che deflagrò sulla stampa, in realtà più su quella spagnola che su quella italiana.

Si trattava dell’emanazione del decreto legislativo 480 del 13 luglio, che di fatto abrogava una serie di articoli del Testo unico di Pubblica eicurezza.

Due di questi interessavano anche la corrida:

- la Legge Reale del 18 giugno 1930 (art. 70) che vietava tra le altre le manifestazioni che infliggono sevizie agli animali.

- la Legge Reale del 6 maggio 1940 (art. 129) che specificava quali fossero le suddette manifestazioni, e tra esse pure la corrida.

Vale la pena a questo punto tradurre e riportare pari pari le ultime righe di questo capitolo, che tra l’altro sono a chiusura di tutto il testo di Ponticelli:”Oggi non c’è, dunque, nessun ostacolo legislativo all’organizzazione di corride in Italia! Ci sarà tuttavia qualcuno che vorrà, un giorno, risuscitare nella Penisola quello che un antropologo catalano ha definito un fossile vivente della cultura mediterranea, quando la memoria stessa ne è stata persa? Sembra che questo non si auspicabile… la corrida vivrà e si evolverà ancora nella misura in cui resterà ancorata ai suoi confini naturali che sono, ad oggi, la Spagna, il Sud della Francia e l’America Latina”.

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